Questa lettera il tribunale l’ha ricevuta davvero. In un procedimento per decidere l’adottabilità di un ragazzo l'interessato, 13 anni, ha scritto, e poi ribadito chiaramente in udienza, il desiderio di diventare a tutti gli effetti il figlio dei suoi affidatari.
Caro giudice, ti scrivo
e, ti prego, dammi ascolto.
Voglio essere adottivo
perché sono stanco, e molto
d’incontrare quella gente
ricordarmi ogni secondo
che non mi ha mai dato niente
tranne avermi messo al mondo.
Tra papà che non tornava
tra dormir sul pavimento
con mia madre che strillava
e il compagno, che spavento!
Era tutto un aspettare
che cambiassero le cose
ma ho dovuto sopportare
cose troppo dolorose.
Poi l’affido, e son cosciente
che li ho fatti anche penare.
Non credevo veramente
che mi si potesse amare.
L’altra madre mi diceva
“Sai, lo fanno per denaro”
ma ho la prova che sbagliava
ed ha un gusto dolce e amaro.
Per i miei sono un diritto
e per loro una persona.
Ve lo dice il sottoscritto:
stare qui è cosa buona.
Hanno sciolto quel mio ghiaccio
ho imparato a voler bene
posso stare in un abbraccio
senza vivere in catene.
Senti giudice, ho deciso
voglio essere adottato.
Il legame sia reciso
verso chi mi ha generato.
E poi, come fa un migrante
che ritorna ogni due anni
li vedrò per qualche istante.
Non potranno più far danni.
Le filastrocche giudiziarie
I tribunali per i minorenni prendono ogni giorno decisioni difficili. Scelte delicate, suscettibili certo di errore ma orientate ogni volta sulla valutazione dei rischi e dei danni che un minore patisce, molto spesso per mano degli adulti a lui più vicini vale a dire i suoi genitori e i familiari più stretti.
Negli ultimi anni una retorica mielosa e in bianco e nero ha raccontato storie dove i buoni erano ben distinti dai cattivi e dove la conclusione era invariabilmente una sola: i bambini e i ragazzi devono crescere con i loro genitori. Con loro, chiunque essi siano e comunque si comportino.
Ogni altro intervento, anche quando è temporaneo e di stimolo al cambiamento per giungere a relazioni familiari più serene, viene presentato come crudeltà, come ingiustizia. Avrebbe, ciascun genitore, il diritto di fare dei propri figli tutto ciò che vuole - e di evitare il dolore, per sé e per il bambino. Piuttosto la perversione, il maltrattamento, l'incertezza endemica. Tutto sembra meglio della sofferenza che sta dentro alla crisi e alla necessità di cambiare.
Il cinismo infantile dell'autrice che racconta scelte giudiziarie estreme, eppure ordinarie nelle aula dei tribunali per i minorenni, è uno sberleffo a questa logica e un modo per affermare una volta di più che i bambini e i ragazzi sono persone. Non proprietà, non appendici degli adulti ma persone, soggetti di diritto, nei cui panni occorre provare a mettersi e che è opportuno disporsi ad ascoltare in ogni singola e distinta decisione che riguardi da vicino la loro vita.
Le precedenti filastrocche