Ho a che fare con operatori sociali che intervengono accanto a vittime di reato con l’ansia di rimuovere le emozioni difficili. È il proprio disagio ciò che vogliono attenuare.
Quanto sarebbe più semplice se l’orfano di femminicidio frequentasse il padre, se il bimbo maltrattato dichiarasse il suo amore per i genitori… Quanto sarebbe rassicurante e comodo se i cocci si ricomponessero, se chi è pieno di dolore facesse il piacere di digerirlo senza proporlo ai colloqui. Quanto sarebbe gratificante, per tutti quei professionisti, se la vittima potesse estrarre il pungiglione del trauma e dire insieme a loro: “Ma sì, a parte questo…”
Hai robusti armadietti
variopinti tappeti
dove rinchiudi i delitti
seppellisci i segreti.
Nella vecchia credenza
del bisnonno Martino
hai essiccato la violenza
che ha forzato il bambino.
Poi incontri una famiglia
distrutta da un reato.
Ma quanta meraviglia.
Non l’ha già perdonato?
Forse non è decenza
per il tuo stomaco gentile
che quella sofferenza
gli bruci da morire.
Sarebbe un po’ più semplice
se l’orfano di madre
certo non fosse complice
ma perdonasse il padre.
Facesse anche il piacere
di sanare il dissidio
lo andasse ad abbracciare
scordando l’omicidio.
Dai, cerca di capire
non è così che funziona.
Chi ha il vezzo di subire
non sempre accantona.
Ha il pensiero pesante
acido di rancore.
Col naso gocciolante
ti sporca il buonumore.
Prova ad immaginare
che ci vuole del tempo
e che per cancellare
non basta un momento.
Tu dici “A parte questo”
e nascondi la chiave
ma non è un pensiero onesto
se “questo” è un trauma grave.
Prova a posare gli occhi
dentro alla tua credenza.
La cosa che non tocchi
si chiama sofferenza.
Le filastrocche giudiziarie
I tribunali per i minorenni prendono ogni giorno decisioni difficili. Scelte delicate, suscettibili certo di errore ma orientate ogni volta sulla valutazione dei rischi e dei danni che un minore patisce, molto spesso per mano degli adulti a lui più vicini vale a dire i suoi genitori e i familiari più stretti.
Negli ultimi anni una retorica mielosa e in bianco e nero ha raccontato storie dove i buoni erano ben distinti dai cattivi e dove la conclusione era invariabilmente una sola: i bambini e i ragazzi devono crescere con i loro genitori. Con loro, chiunque essi siano e comunque si comportino.
Ogni altro intervento, anche quando è temporaneo e di stimolo al cambiamento per giungere a relazioni familiari più serene, viene presentato come crudeltà, come ingiustizia. Avrebbe, ciascun genitore, il diritto di fare dei propri figli tutto ciò che vuole - e di evitare il dolore, per sé e per il bambino. Piuttosto la perversione, il maltrattamento, l'incertezza endemica. Tutto sembra meglio della sofferenza che sta dentro alla crisi e alla necessità di cambiare.
Il cinismo infantile dell'autrice che racconta scelte giudiziarie estreme, eppure ordinarie nelle aula dei tribunali per i minorenni, è uno sberleffo a questa logica e un modo per affermare una volta di più che i bambini e i ragazzi sono persone. Non proprietà, non appendici degli adulti ma persone, soggetti di diritto, nei cui panni occorre provare a mettersi e che è opportuno disporsi ad ascoltare in ogni singola e distinta decisione che riguardi da vicino la loro vita.
Le precedenti filastrocche