Ha fatto molto bene la Procura di Napoli, dopo la morte del piccolo Giuseppe per le botte del patrigno, a mettere sotto intercettazione i telefoni delle sue insegnanti. Ha scoperto che sapevano tutto, erano state zitte, sfottevano il bambino, e insieme concordavano la versione per svicolare da ogni responsabilità. Bella roba.
Lo chiamavano “scimmietta”
e non gli hanno dato retta
Anche i lividi sul viso
li hanno visti, e l’han deriso.
La sorella ha raccontato
ma nessuno ha mai ascoltato.
“Beh, Giuseppe cade sempre.
Non sa fare proprio niente”.
“No, ma queste sono botte”.
“Avrà pianto tutta notte”.
“Se lo picchia c’è un motivo”.
“Tu che fai? Io non lo scrivo”.
Questo, oggi e anche domani
e quell’uomo usa le mani
poi di nuovo il giorno dopo
ricomincerà il suo gioco.
Loro invece lì in disparte
né si sposa né si parte
né si dà principio all’arte.
Chi ha spiato le mie carte?
Sono pavide, infamanti.
Le chiamavano insegnanti.
Qui la prima Filastrocca dedicata al piccolo Giuseppe
Le filastrocche giudiziarie
I tribunali per i minorenni prendono ogni giorno decisioni difficili. Scelte delicate, suscettibili certo di errore ma orientate ogni volta sulla valutazione dei rischi e dei danni che un minore patisce, molto spesso per mano degli adulti a lui più vicini vale a dire i suoi genitori e i familiari più stretti.
Negli ultimi anni una retorica mielosa e in bianco e nero ha raccontato storie dove i buoni erano ben distinti dai cattivi e dove la conclusione era invariabilmente una sola: i bambini e i ragazzi devono crescere con i loro genitori. Con loro, chiunque essi siano e comunque si comportino.
Ogni altro intervento, anche quando è temporaneo e di stimolo al cambiamento per giungere a relazioni familiari più serene, viene presentato come crudeltà, come ingiustizia. Avrebbe, ciascun genitore, il diritto di fare dei propri figli tutto ciò che vuole - e di evitare il dolore, per sé e per il bambino. Piuttosto la perversione, il maltrattamento, l'incertezza endemica. Tutto sembra meglio della sofferenza che sta dentro alla crisi e alla necessità di cambiare.
Il cinismo infantile dell'autrice che racconta scelte giudiziarie estreme, eppure ordinarie nelle aula dei tribunali per i minorenni, è uno sberleffo a questa logica e un modo per affermare una volta di più che i bambini e i ragazzi sono persone. Non proprietà, non appendici degli adulti ma persone, soggetti di diritto, nei cui panni occorre provare a mettersi e che è opportuno disporsi ad ascoltare in ogni singola e distinta decisione che riguardi da vicino la loro vita.
Le precedenti filastrocche